L’evoluzione della ’ndrangheta. Dai sequestri in Aspromonte ai legami con economia e politica. La “Mappa criminale” della ’Ndrangheta moderna.
La ’Ndrangheta l’abbiamo prima negata, poi raccontata come una mafia rurale. Poi l’abbiamo persa di vista. Forse perché all’epoca, la percezione comune, rispetto a Cosa Nostra, era quella di una mafia strettamente legata al territorio, orizzontale, dedita alle faide, al contrabbando e ai sequestri di persona, ma che non metteva bombe e non minacciava direttamente lo Stato.
Eppure, tra il 1980 e il 1993 solo Reggio Calabria ha contato 2.000 omicidi, come un bollettino di guerra, fra cecchini e assalti con i bazooka.
E’ il primo omicidio eccellente di un magistrato al Nord, quello di Bruno Caccia nel 1983 a Torino, fu commesso da ’ndranghetisti trapiantati in Liguria e Piemonte. Ma questo è il vantaggio che gli abbiamo concesso. Così la mafia calabrese, come una malattia silente, ha continuato a lavorare e, sotto traccia, a proliferare ovunque.
Oggi la più potente organizzazione criminale del mondo sta mutando ancora, per interpretare meglio questi anni di pandemia e mantenere il suo triste primato. A confermarlo, le maxi-inchieste della Procura di Reggio Calabria condotte dal procuratore Giovanni Bombardieri e dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dal pool di Nicola Gratteri.
Indagini che hanno permesso di aggredire la ’Ndrangheta militare e quella invisibile, l’aristocrazia della mafia calabrese. Un’entità finora percepita, già affrontata nell’inchiesta “Olimpia”, la prima a mappare i legami fra ’Ndrangheta superiore, massoneria e politica, ma ancora mai pienamente riconosciuta.
Dai processi “Gotha” a Reggio Calabria, concluso in primo grado con 15 condanne su 30, e “Rinascita-Scott” a Catanzaro, emerge una duttile masso-mafia a più livelli e dalle mille sfumature, che si avvale di uomini di fuoco quanto di professionisti, politici e uomini dello Stato.
I contatti con il mondo esterno ci sono fin dagli Anni ’70, da quando don Paolino De Stefano di Reggio Calabria e Mommo Piromalli di Gioia Tauro, dopo aver eliminato i vecchi capi, legati a un’idea di mafia secondo loro arcaica, elevarono i “33 santisti” (uno dei ranghi superiori della ’Ndrangheta) scegliendo tra i più rappresentativi capi famiglia di tutta la Calabria. I Santisti ebbero la possibilità di avvicinarsi alle obbedienze massoniche. La prima grande apertura nella storia della ’Ndrangheta. Ancora una volta, in anticipo rispetto alle altre mafie.
A distanza di generazioni “la Santa” si è evoluta, oggi sono i massoni coperti a cercare la mafia, o i politici stessi, a caccia dei voti che i clan gestiscono su tutto il territorio. La nuova ’Ndranghetada tempo si è creata le proprie logge coperte, e oggi è andata oltre la massoneria, ne ha scalato i ranghi e l’ha modificata per renderla funzionale al fine mafioso.
L’organizzazione “militare”
Quello che non può lasciarsi indietro in questa trasformazione è parte della sua storia identitaria: la sua organizzazione gerarchica e logistica ovvero l’architettura militare fatta di distaccamenti, colonie e avamposti. Da Reggio al Canada, da Platì all’Australia tutto ciò che è importante: direttive, punizioni, doti superiori o omicidi eccellenti, viene prima deciso dall’organo centrale, in Calabria, poi condiviso con i vertici e infine con i Locali. E l’ordine diventa immediatamente esecutivo.
Al pari di questa vasta e capillare rete (portata alla luce dall’inchiesta “Crimine”), che centralizza tutte le decisioni importanti, c’è un’altra struttura riservata e superiore, finora invisibile ma strategica per l’organizzazione. Per capire meglio cosa distingue le due strutture, quella militare e operativa detta “Crimine” o “Provincia” da quella direttiva e invisibile, mi sono rivolto a chi, in 40 anni di ’Ndrangheta, ne ha frequentato entrambe le componenti. Non potendone riportare il nome mi limiterò a chiamarlo “Africo” (come il paese della Locride diviso fra Aspromonte e mare, ndr) «Quando sono arrivato a Milano, Antonio Papalia di Platì, comandava tutto il Nord.
Sono arrivato a Buccinasco in periferia di Milano perché c’erano delle frizioni ma giù sapevamo tutto per via dei rapporti mensili. Sono salito al Nord per sistemare le cose e non me ne sono più andato. Dovevamo prenderci Milano, questa era la strategia». E Milano se la sono presa davvero.
Dai sequestri al narcotraffico
Tra il 1985 a metà degli Anni ’90, “Africo” era il referente di una potente famiglia dell’Aspromonte. Il suo gruppo era già coinvolto nei sequestri degli industriali lombardi che venivano nascosti in Aspromonte. Ma la grande intuizione fu quella di investire i miliardi di lire ottenuti con i riscatti per costruire le basi di quello che, oggi, è il monopolio del narcotraffico internazionale.
“Africo” ha smesso presto di sparare, la sua vocazione era un’altra e di uomini di fuoco, in quella Milano, ce n’erano fin troppi. A metà degli Anni ’80 il grande mercato dell’eroina era ancora in mano ai siciliani, ma in Lombardia, “Africo” già assoldava chimici marsigliesi, costruiva rapporti con la mafia turca e con i calabresi radicati in America. Il gruppo importava oppio dal Kurdistan, lo raffinava in eroina alle porte di Milano ed esportava oltreoceano a beneficio dei Locali in Canada e negli Stati Uniti.
«Un traffico talmente vasto e consolidato che i Colombiani ci chiesero aiuto. All’inizio scambiavamo qualche chilo di eroina con la loro cocaina, la richiesta in Italia in quegli anni era bassa, solo per l’élite. Lo facevamo più per costruire un rapporto che per convenienza. È così che i confini dell’organizzazione si sono allargati. La cocaina è diventata una droga di massa grazie alla ’Ndrangheta».
Oggi nelle piazze di spaccio di tutta Italia una dose di cocaina “cotta” o “crack” costa poco più di 10 euro, una dose in polvere 20. Per renderla una droga di massa ci sono voluti 30 anni, ce ne sono voluti molti meno per convincere i boss dell’epoca che il narcotraffico su larga scala era l’affare del futuro, che avrebbe addirittura sostituito il contrabbando di sigarette e i rapimenti.
«I nostri chimici raffinavano eroina con un punto di fusione oltre i 130 gradi, una purezza mai vista prima, e ogni gruppo qui al Nord ne gestiva mediamente 120 chili al mese, che per l’epoca erano tanti. L’eroina della ’Ndrangheta copriva due continenti. Quando nel 1988 abbiamo cominciato a interessarci seriamente al traffico di cocaina, eravamo già pronti. Dopo qualche anno sono stati i colombiani a chiederci di occuparcene esclusivamente». Nei primi Anni ’90 i pionieri del traffico mondiale di coca erano calabresi. Iniziò così, l’affare più redditizio nella storia di tutte le mafie.
L’espansione al Nord
A Milano, grazie ai “vecchi” ’ndranghetisti mandati in esilio e alle nuove arrembanti generazioni arrivate in cerca di fortuna, le emanazioni delle ’ndrine si erano già insediate in alcune periferie. I calabresi flirtavano con la malavita locale e con i siciliani, ma già preparavano la grande ascesa. «Avevamo tanti soldi, imparammo allora a lasciare parte degli introiti all’estero. Troppi soldi attirano l’attenzione e il codice impone di tenere un basso profilo, se per vivere hai bisogno di un milione perché riportarne in Italia dieci? All’epoca eravamo disciplinati come militari, più dei militari».
Le prime indagini “lombarde”
Nonostante le accortezze degli affiliati alcuni investigatori del capoluogo lombardo, quasi tutti formati nelle città del Sud, riuscirono a riconoscere i segnali della contaminazione ’ndranghetista. All’inizio i reati spia: movimento terra, edilizia e rifiuti, poi i poliziotti osservando meglio bar, bische e ritrovi delle comunità calabresi hanno notato alcuni volti noti della malavita “di giù”, e poi le auto blindate, le ville bunker, i viaggi regolari in Calabria.
Trenta anni fa le indagini si facevano ancora “battendo” il territorio; fra appostamenti, microfoni rudimentali e fonti riservate. Pezzo dopo pezzo riuscirono a ricostruire i complessi legami fra le famiglie della Piana, della Jonica e di Reggio, e gli insediamenti lombardi.
Nel 1988 furono addirittura testimoni di un summit proprio a Buccinasco. Erano presenti Antonio Pelle detto “Gambazza” il Papa nero di San Luca, Giuseppe Morabito “Tiradrittu” di Africo e Antonio Papalia originario di Platì. Tre dei principali capi dell’epoca tutti insieme in un bar di Milano per tracciare il futuro del loro mandamento al Nord.
I poliziotti non hanno mai abbandonato la caccia e il loro lavoro ha identificato 20 locali e circa 500 affiliati in tutta la Lombardia. Tra uno degli investigatori e “Africo”, come accade a volte tra i duellanti, si creò un gioco di mosse e contromosse sfociato in un rapporto di rispetto reciproco: «Ma all’epoca ci saremmo sparati volentieri» ammette “Africo”.
Il pentito e la ’Ndrangheta moderna
Da questo rapporto è poi nata una collaborazione con i magistrati che anni dopo ha permesso di ricostruire la grande espansione della ’Ndrangheta al Nord, dai sequestri di persona al narcotraffico, passando per i grandi appalti. I ruggenti anni della “Milano da bere” sono stati l’epoca d’oro della colonizzazione ’ndranghetista. E il mio intervistato ne è stato uno dei protagonisti e principali testimoni.
L’ho incontrato sulla terrazza di un prestigioso Hotel di Milano. “Africo”, oggi sessantenne, ben vestito e perfettamente a suo agio davanti a un cocktail con oliva, prova a spiegarmi la Grande Evoluzione: «Quando pensi alla ’Ndrangheta moderna, dimentica i santini bruciati e le riunioni alla Madonna della Montagna. È quello che vogliono farti vedere.
La ’Ndrangheta di oggi, devi immaginarla come le due piramidi del Museo del Louvre, quella solida e quella trasparente, l’una sovrapposta all’altra con un solo punto di contatto fra le due. Separate, ma in equilibrio fra loro. L’una necessaria all’altra”. Una nuova emanazione, di ispirazione massonica, che può operare anche all’insaputa dei mandamenti e delle famiglie stesse, ma sempre nell’interesse della ’Ndrangheta.
L’evoluzione
«Quando l’espansione toccò il Nord – ricorda “Africo” – c’era già un organo superiore. Noi lo chiamavamo “la Camera. Alle riunioni partecipavano esponenti politici, di livello altissimo, rappresentanti dello Stato, della Chiesa e noi». E questo accadeva già nei primi Anni ’90 a mille chilometri dalla Calabria.
La ’Ndrangheta invisibile, al centro del processo “Gotha” del procuratore Giuseppe Lombardo, è la piramide di vetro. La sua composizione è ancora vaga, ma grazie a questa importante inchiesta oggi sappiamo che nel mandamento reggino da 40 anni c’è una direzione strategica ’ndranghetista composta da sei o sette individui.
Due dei quali sono (o sono stati) l’avvocato Giorgio de Stefano, ai vertici dell’omonima famiglia, che ha attraversato una guerra da 800 morti, e l’ex parlamentare del Psdi e massone Paolo Romeo, condannato in primo grado a 25 anni, la cui storia comincia con il golpe Borghese (quando nasce la duratura alleanza fra destra eversiva e ’Ndrangheta) passa per la P2 e arriva fino alle ultime elezioni.
A Catanzaro, invece, nel processo “Rinascita – Scott” un altro avvocato è accusato di essere un “Maestro Venerabile” in grado di mediare tra boss e pezzi dello Stato.
L’imputato al centro della maxi-inchiesta è l’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia (passato nel 2017 a Fratelli d’Italia) Giancarlo Pittella, che secondo l’accusa accoglieva nella sua loggia coperta sia esponenti del potentissimo clan Mancuso di Limbadi che magistrati delle procure calabresi, con la finalità, tra le altre, di “aggiustare” i processi a carico degli affiliati. Questi, secondo i magistrati in prima linea, sono gli uomini invisibili della ’Ndrangheta superiore.
Da quando si è costituita la “Santa”, la camera di congiunzione fra ’Ndrangheta e mondo esterno, che concedeva al Santista addirittura la possibilità di “fare falsa politica” di rinnegare la famiglia e vendere pezzi dell’organizzazione per depistare lo Stato, si è formata una nuova categoria di mafiosi, capace di interagire con il potere, di usarne la grammatica. Il “santista” evoluto. I vecchi boss si lamentavano della mancanza di affidabilità dei politici, anche di quelli che si presentavano con il cappello in mano elemosinando voti.
Giuseppe Pelle, figlio di Antonio “Gambazza”, dieci anni fa chiedeva che tutti e tre i mandamenti mafiosi della Calabria, in occasione delle elezioni, si coordinassero per scegliere i migliori candidati. Muoversi insieme per non disperdere i voti.
Un altro importante boss, Nicolino Grande Aracri, originario di Cutro ma da decenni uomo di vertice del crotonese con ramificazioni in Emilia Romagna e Veneto (come riporta Antonio Nicaso nel libro “Ossigeno illegale” scritto con il magistrato Nicola Gratteri), voleva addirittura una commissione esterna in grado di amministrare parte del tesoro della ’Ndrangheta e proponeva 500 milioni di euro di deposito. Entrare in prima persona e da protagonisti nella politica e nell’economia.
È lecito pensare quindi, a distanza di anni, che questi progetti embrionali fossero dettati da un’esigenza: quella di infiltrare l’organizzazione in tutte le stanze del potere superiore, di allargarsi insomma, ma a differenza del passato con una strategia e tutti insieme.
Ma suggeriscono anche l’esistenza di un punto fermo, ovvero che la ’Ndrangheta può già contare su una “piattaforma”, come la chiama Grande Aracri, sulla quale costruire progetti comuni. Per questo la categoria di ’ndranghetisti riservati, negli anni, si è affinata quanto la sua ala militare.
Oggi frequentano i salotti dell’upperclass milanese e romana, il mondo dell’imprenditoria e dello spettacolo. Gli ’ndranghetisti invisibili ridono dei rituali di affiliazione e al pellegrinaggio al santuario della Madonna di Polsi preferiscono la settimana bianca sulle Alpi o gli aperitivi in Via Veneto, ma sanno bene che la ’Ndrangheta pur avendo diverse forme resta una, come la mamma.
A differenza dei comuni affiliati hanno un mandato che esula dalle logiche di spartizione e presidio del territorio, fanno un altro mestiere. Seducono magistrati e uomini delle forze dell’ordine, preparano e sostengono politici dal palcoscenico locale fino a uno scranno in Parlamento (e non solo), inquinano società, costruiscono rapporti fiduciari e di scambio con grandi gruppi bancari, italiani ed esteri.
Utilizzano fondi d’investimento, conti offshore e criptovalute, e così i miliardi di euro prodotti con il narcotraffico ingrassano le banche grigie dei paradisi fiscali e vengono investiti in Paesi fragili o compiacenti. «Sono i grandi gruppi bancari che da anni gestiscono parte del patrimonio della ’Ndrangheta e non solo – conferma “Africo” – io ho avuto rapporti con i principali istituti bancari inglesi e spagnoli, ma so che ce ne sono altri.
Gruppi così potenti che possono permettersi di gettare le rogatorie internazionali nel cestino; e se vengono beccati a riciclare i miliardi del narcotraffico pagano una multa». Ed effettivamente negli anni sono stati accusati e condannati per reati legati al riciclaggio colossi come Citibank, Hsbc, DeutscheBank, Bank of America, e hanno subito conseguenze minime.
Ma quella è già la stratosfera dell’organizzazione, dove l’aria è cosi rarefatta che contrastare il fenomeno diventa quasi impossibile.
Fonte: Daniele Piervincenzi – Polizia Moderna