Cosa c’è (davvero) dietro l’arresto di Messina Denaro… o quello di Totò Riina, o quello di Bernardo Provenzano. Poco cambia.
No, non vi aspettate rivelazioni clamorose, anticipazioni d’indagini, l’indirizzo di un altro covo: pur essendo, diciamo così, nel settore, mi occupo di altro. E trovo che a questo mondo (per quell’altro, vedremo) se ognuno facesse il suo mestiere, se ognuno non volesse sempre e comunque ritenersi superiore al prossimo quando non è il caso, quando gioca fuori casa, quando non è capace di capire quanti giri fa ‘na boccia (“E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano”. – A. Manzoni, I promessi sposi, Cap. V), si starebbe tutti molto meglio.
C’è svegliarsi all’alba di un martedì qualsiasi, di un giovedì a caso, di una domenica d’inverno, vestirsi con la torcia del cellullare senza far rumore, coprirsi ed uscire di casa. Oppure svegliarsi all’alba dello stesso martedì, di un qualsiasi venerdì, e potersi permettere di accendere la luce e vestirsi comodamente, tanto la tua famiglia è a milleduecento chilometri di distanza e certo non svegli tuo figlio se sbatti con il mignolo al comodino e reciti a memoria l’elenco dei protagonisti del calendario, in rigoroso ordine cronologico.
C’è da stare otto ore chiuso dentro una “balena”, che Geppetto scansate, a guardare un portone chiuso senza potersi permettere di abbassare un attimo gli occhi per leggere il WhatsApp di tua moglie, di tua figlia, di tuo nonno, di zia Peppina, del direttore della banca che ci tiene a dirti che il tuo conto è in rosso di 23 euro e sia mai tu ci rimanga più di un paio d’ore. C’è da stare, in quelle stesse otto ore, con l’Imodium in corpo, che se ti scappa è un bel problema, atteso che evacuare nella bottiglia (o anche nelle bottiglie: dipende da età e grandezza prostata) dove hai riposto urine (fare centro continuando a guardare il portone diventa un’arte, col tempo) che basterebbero per circa duecentocinquanta analisi di laboratorio che non ha mai tempo di fare, verrebbe un po’ scomodo e inopportuno.
C’è da guardare dai vetri oscurati, finalmente un po’ più rilassato, quando ti stanno portando via per il cambio (chè mica puoi semplificare come nelle fiction, che apri il portellone e scendi davanti alla casa del mafioso, del terrorista, di chiunque sia l’obiettivo) la gente che passeggia, i ragazzi che si baciano, i papà con i figli sulle spalle. E dover decidere se è il caso di pregare o bestemmiare.
C’è da partire improvvisamente, quando sei a Roma, per andare un attimo a Palermo. O a Milano quando sei a Bari. O a Pescara quando sei a Torino. E c’è da buttare quattro mutande e due magliette dentro uno zaino, che la durata di quell’attimo la conosci bene, tanto che quando baci i tuoi figli che giocano sul tappeto, prima di uscire di casa e ti chiedono “ma oggi avevi già lavorato, dove vai, quando torni?” non sei capace nemmeno di rispondergli. E subito dopo aver chiuso il portone, lentamente, per poterli guardare fino all’ultimo secondo possibile, ti accerti toccandola che tu abbia la pistola infilata nei pantaloni, che ormai non la “senti” più.
C’è la neve d’inverno ed il fuoco del sole d’estate, che hanno freddezza e calore diverso, amplificato, disumano rispetto alla percezione che ne hanno gli “altri”. Ci sono gli abbracci silenziosi e di retroguardia ai funerali dei colleghi, che spesso sono diventati anche amici (anche perché altrimenti non ne avresti, forse). Al saluto di chi è morto scivolando in una scarpata in una notte d’estate, “ solo” per montare una telecamera o un direzionale. All’arrivederci con chi si è schiantato contro un platano, e non saprai mai se perché era davvero troppo stanco. Solo ti assale il rimorso di non aver accettato il passaggio, che magari vi sareste fermati per un caffè e la morte vi avrebbe sorpassati entrambi.
C’è che vedere una lacrima timida scendere dal viso di un Carabiniere sull’attenti ti restituisce l’immagine di una lama che taglia netta la pelle.
C’è che vedere un bimbo con un’Alpha verde taglia XXS addosso è come quando qualcuno ti penetra il petto con una mano e ti afferra e strizza il cuore. Ma poi pensi che almeno lui non l’hanno sciolto nell’acido.
C’è che non ci sono derby da guardare, amici da perculare, pizze da infornare, carrozzine da spingere, panorami da godere.
C’è l’odore acre dell’ennesima sigaretta, c’è il panino e la birra a notte fonda insieme a qualche altro sbirro meno in incognito di te, due signorine di passaggio e i netturbini che cominciano il giro.
C’è la testa che ti scoppia alla dodicesima ora con le cuffie e no, non te vuoi andare perché la sensazione è quella giusta. E poi non è, per giorni e giorni, per mesi e mesi.
C’è la bottiglietta d’acqua, da buttare a terra durante la perquisizione ed osservare quali fughe, tra le mattonelle, occupa. E come. C’è lo stucco per le piastrelle, da trovare tra il riso e la pasta.
C’è una goccia di sudore, ghiacciato, che ti scende lungo la colonna vertebrale quando stai per incrociare sul marciapiede due tizi con il cappotto quando è primavera e tu sei in maniche di camicia. E fermarti un attimo a respirare profondamente quando ti rendi conto che sono solo tipi fashion.
Ci sono i chilometri di autostrada, ci sono brividi quando passi a Capaci o osservi la cabina dell’Enel sulla collinetta.
Ci sono i panorami che scorrono dal treno, lato finestrino. Ci sono i dubbi, i pensieri, le preoccupazioni, gli stranimenti, le bestemmie e le preghiere, i ricordi e le battute, le telefonate ed i ritorni. Lo stipendio accreditato, alla faccia dei 23 euro di scoperto, e quell’orsacchiotto da comperare per tuo figlio all’ultimo autogrill prima di casa.
Chè il problema non è “quando torni”, ma “se” torni.
Per tutto il resto, non abbiamo tempo.