Il riconoscimento russo alle due repubbliche separatiste è una violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.
L’annuncio del Presidente Vladimir Putin come un “aleia iacta est” (la decisione è presa) di avviare il riconoscimento delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk nell’Ucraina orientale come Stati indipendenti, attraverso la firma di accordi di amicizia ed assistenza con i due presunti governi di nuova indipendenza, ossia di due Stati fantocci, soggetti al totale controllo della Russia, va inquadrato dall’angolatura del diritto internazionale.
Bisogna comprendere come la Russia abbia utilizzato il linguaggio del diritto internazionale per giustificare le proprie azioni.
Vi è un atto del riconoscimento, esistono i trattati, vige l’affidamento su una sorta di teoria della secessione correttiva o dell’autodeterminazione in risposta a un presunto genocidio. In tal guisa, potremmo sostenere che il Cremlino stia seguendo un manuale di strategia da mettere in campo, come è avvenuto nel caso della Crimea, quando gli stessi identici passi hanno preceduto la sua forzata occupazione bellica e l’annessione del territorio, con il consenso di un presunto Stato di nuova indipendenza.
In questo caso, ci si trova dinanzi a una zona grigia particolarmente evidente fra la visione negativa della Russia attorno alla questione secessionistica del Kosovo dalla Serbia e la sua posizione sull’Ucraina. Tuttavia, vi è anche un certo livello di coerenza in quale sia la posizione articolata del principio giuridico secondo l’ottica della Russia.
Si può riportare alla luce di quanto detto il caso in cui la Russia fu il solo Stato membro permanente del Consiglio di Sicurezza che, durante la sua convocazione dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia nel procedimento consultivo relativo alla conformità del diritto internazionale della dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel 2010, asserì la teoria della secessione riparatoria o dell’autodeterminazione.
Difatti, la Russia nel caso del Kosovo precisò che «il fine primario della clausola di salvaguardia della Dichiarazione sulle relazioni amichevoli sia quello di fungere da pilastro di garanzia dell’integrità territoriale degli Stati», che, a parere sempre di Mosca, «tale clausola possa essere interpretata come una specie di autorizzazione alla secessione a determinate condizioni, che dovrebbero essere circoscritte a circostanze davvero estreme, come un vero e proprio attacco bellico da parte di uno Stato preesistente, che minaccia l’esistenza stessa degli individui in questione.
Contrariamente, dovrebbe essere compiuto ogni sforzo per dirimere la tensione tra lo Stato preesistente e la comunità etnica interessata nell’ambito dello Stato esistente». Al di là del contesto coloniale, il diritto internazionale consente la secessione di una parte di uno Stato contro la volontà di quest’ultimo solo per una questione di autodeterminazione dei popoli e solo in circostanze estreme, cioè a dire nel momento in cui il popolo considerato sia continuamente sottoposto alle forme più gravi di oppressione che pone in pericolo l’esistenza del popolo stesso.
Tutta la retorica, di fatto del tutto non plausibile, attorno al crimine di genocidio nel Donbass serve essenzialmente allo scopo di soddisfare il predicato fattuale di questa teoria, ossia che l’esistenza stessa del popolo di Donetsk e Luhansk era minacciata dall’Ucraina, Stato preesistente, in modo che la loro indipendenza fosse una misura giustificata come extrema ratio.
La Russia, in tal guisa, sino ad oggi, ha asserito che, in base alla analoga teoria, il Kosovo non aveva il diritto di diventare indipendente dalla Serbia, in parte perché gli albanesi del Kosovo non costituiscono un popolo – rispetto ai russi o di lingua russa presenti in Crimea o nel Donbass – e in parte per la ragione che non sono stati continuamente soggetti a forme di oppressione.
In poche parole, si può dire che questo è un ottimo esempio di come una teoria progressista, come quella riparatoria della secessione o dell’autodeterminazione, possa essere utilizzata per fini decisamente non progressisti per giustificare l’occupazione territoriale. È anche un emblema di come, pure in momenti di massima irrilevanza, il diritto internazionale sia il solo strumento che parla una sola lingua utilizzabile da tutte le Parti in causa.
Si noti come il riconoscimento da parte della Russia delle due repubbliche separatiste sia chiaramente una violazione del diritto internazionale, ma anche una flagrante violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina.
A questo punto, credo che sia necessario fare un distinguo tra il riconoscimento e il non riconoscimento dall’ottica del diritto internazionale.
Il primo costituisce, per un’entità statale di nuova formazione, uno strumento per poter essere accolto dalla comunità internazionale, e successivamente procedere a stabilire relazioni e forme di cooperazione con altre entità statali. Ergo, soltanto con il riconoscimento il neo-Stato otterrebbe la personalità internazionale, divenendo soggetto di diritto internazionale. Chiaramente, il riconoscimento andrebbe reputato come un atto unilaterale e discrezionale con cui gli Stati preesistenti si limiterebbero a considerare la nascita di una nuova entità statale e ad entrare in relazione con essa.
Il non riconoscimento, invece, consiste nell’invitare gli Stati, membri della comunità internazionale, a disconoscere come legittima una situazione de facto creata attraverso una violazione grave del diritto internazionale. La prassi è ricca di casi in cui il disconoscimento è stato applicato, che viene fatto risalire alla dottrina Stimson del 1931 in riferimento all’annessione della Manciuria da parte del Giappone, avvenuta in contrasto con il Patto Briand-Kellog (1928), in cui era sancito il divieto di ricorrere allo strumento bellico.
Il non riconoscimento si attua quando ci sono circostanze ed atti posti in essere con mezzi illeciti e in violazione del cardine ex injuria ius non oritur, cioè a dire che da un atto illegittimo non può sorgere un diritto.
Anche livello del diritto onusiano il non riconoscimento può essere applicato quando l’acquisizione territoriale sia avvenuta con la minaccia o l’impiego dell’azione coercitiva militare.
L’atto russo di riconoscere le due repubbliche può essere considerato una violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, ma anche un attacco alla sovranità, all’indipendenza e all’integrità territoriale dell’Ucraina, Stato membro delle Nazioni Unite.
Si comprende, allora, come questa mossa di Putin è alla base per creare un pretesto per un’ulteriore invasione dell’Ucraina o colpo di grazia agli ucraini.
di Giuseppe Dr. Paccione
Dottore in Scienze Politiche
settore di studio politico-economico internazionale